L’UOMO
E’ UN ESSERE VULNERABILE
Il termine vulnerabile deriva dalla parola latina Vulnus che letteralmente significa:
ferita o lesione, essa può essere fisica, psicologica e per estensione anche di un diritto.
Vulnerabile è tutto ciò che è esposto alla possibilità di essere ferito, violato, leso, colpito, percosso, offeso, tagliato, danneggiato.
In questo modo vulnus sembra rinviare tanto all’azione del ferire (la causa, il colpo inferto da chi ha il potere e la possibilità di of-fendere), quanto allo stato del soggetto che subisce (l’effetto, la violazione del corpo, dell’anima, degli affetti, ecc.), il significato si estende anche agli aspetti psicologici ed emotivi.
Essere vulnerabili, quindi, vuol dire essere persone umane con tutte le nostre debolezze, le fragilità ed anche la capacità d’essere violenti.
Quando Adamo risponde alla chiamata di Dio con la frase :
”avevo paura perché ero nudo e mi sono nascosto” ci fa riflettere su cosa significa nudità.
La nudità esprime l’essere umani, vulnerabili e fragili.
Nessuno di noi scelse di nascere, di scegliere la propria famiglia, eppure siamo nati.
Per questo dobbiamo accettare noi stessi e la nostra vulnerabilità, la nostra debolezza, il sentirci fragili.
Quando si parla di vulnerabilità, in realtà, spesso si dimentica che si sta facendo riferimento ad una caratteristica costitutiva della condizione umana.
L'uomo per sua natura è un essere vulnerabile, e lo è in modi e gradi diversi.
E sono proprio i modi e i gradi della condizione di vulnerabilità nella quale si sviluppa nel tempo l'identità di ciascuno di noi.
Se consideriamo che l'uomo vive la sua vita attraverso un corpo, coesistendo con altri uomini non esiste l'Uomo ma gli uomini, e aspirando ad una vita buona la vulnerabilità può essere riconosciuta all'interno di tre dimensioni del vivere umano:
la vita sociale,
la corporeità,
la vita morale.
La vita sociale, dunque, non è più una condizione naturale che poggia sulla naturale tendenza dell'uomo alla cooperazione, ma una costruzione artificiale prodotta dal patto tra gli uomini di reciproca rinuncia a parti della propria libertà di agire, così da evitare la guerra di tutti contro tutti.
Si tratta di una scelta che non ha radici morali, ma anch'essa assolutamente egoistiche:
si sceglie il patto perché la guerra di tutti contro tutti minaccerebbe in misura insostenibile la propria sopravvivenza, e difendere la propria individuale sopravvivenza è la prima legge di natura a cui l'uomo deve rispondere.
Ne risulta che communitas è l'insieme di persone unite non da una «proprietà», ma da un dovere.
Non da un «più», ma da un «meno», da una mancanza, da un limite che si configura come un onere.
La vulnerabilità, la mancanza, la stessa condizione di essere mancante, sono anche qui mezzo per la nascita del legame sociale, e non rischio da contenere.
L'apparire del corpo sposta l'origine della vulnerabilità dall'esterno all'interno dell'umano, insediandola inevitabilmente nella struttura ontologica dell'uomo.
La relazione tra vulnerabilità e corporeità si rivela infatti a chiunque osservi la condizione umana.
Ed in effetti noi siamo innanzi tutto corpo, io sono innanzi tutto il mio corpo, senza il quale non potrei nascere, pensare, sentire, giudicare, emozionarmi, gioire, soffrire, morire.
Il mio corpo è, più essenzialmente, corpo-vulnerabile:
vulnerabile ai colpi dell'altro uomo,
vulnerabile alle forze della natura,
vulnerabile alle cadute dei fragili equilibri psichici che lo animano dall'interno.
Ed è proprio l'essere io originariamente corpo-vulnerabile a fare del gesto di curarlo forse il gesto più originario della condizione umana:
si è uomini e donne nella capacità di eseguire il gesto di curare del corpo stesso.
La malattia è la veste che la vulnerabilità assume quando abita il corpo, e il suo apparire sembra allontanare dalla vita il progetto che avevamo pensato di costruire.
In specie se la malattia dovesse condurci alla fine dell’esistenza allora siamo in presenza di una vulnerabilità totale ed in questo caso possiamo solo orientare il nostro spirito nell’accettazione dell’abbandono del corpo ed un affidamento assoluto al Signore, Dio della Vita.
La vita morale non è vita interiore, ma per sua costituzione vita esposta al mondo esterno attraverso l'attività, aperta all'altro, e dunque ogni virtù che la costituisce è tale proprio perché esposta al suo fallimento o alla sua negazione.
La vita buona è fatta di valori instabili, esposti ad eventi indipendenti dal nostro volere:
amare vuol dire esporsi all'instabilità dell'amore;
legarsi all'altro, esporsi alla possibilità della sua perdita;
agire giustamente, esporsi alla sopraffazione della forza prepotente.
L'intera vita morale, nei termini che si è tentato di accennare attraverso il pensiero aristotelico, appare esposta radicalmente alla possibilità della perdita, all'instabilità.
Il fatto che la vulnerabilità possa essere un elemento positivo che richiede apertura non significa, comunque, che si debba andare in giro per il mondo senza alcuna difesa.
Tutti dovremmo essere attrezzati con una serie di ben forti e funzionanti meccanismi di protezione, perché ne abbiamo bisogno.
Al di là della protezione del nostro ego sociale stanno aggressività, avidità, passioni che sfuggono al controllo morale.
Ci basta fare una visita in un centro per bambini abbandonati per vedere la brutalità dei nostri impulsi primitivi, non civilizzati, prima che siano sottoposti al nostro controllo cosciente.
Sotto la nostra corazza difensiva si nascondono le nostre reazioni a tutti i traumi, vecchi e nuovi, ferite da perdite, paure, shock, umiliazioni, fallimenti, abbandoni.
E’ il bagaglio emotivo che ci portiamo dietro dall'infanzia.
Per contenere tutto questo abbiamo bisogno delle nostre difese.
Bambini senza meccanismi di difesa possono finire istituzionalizzati.
Né la labilità, un continuo spostamento da una forte emozione ad un' altra, contribuisce ad una vita felice.
Ma la ricerca della supremazia e del controllo, il tentativo di evitare tutto il dolore, agisce come un lucchetto serrato che non ci permette di aprire la cassa del tesoro della vulnerabilità.
Troppa vulnerabilità spaventa, troppo poca è tragica e crea solitudine.
Abbiamo bisogno sia di controllo che di apertura, sia di protezione dei nostri confini che dell’abilità di ritirarli.
Quando si vive in una società governata dal successo personale, dalla rivalità, la capacità di relazionarsi diminuisce.
La famiglia si rompe con facilità,
la comunità si frantuma,
la religione può diventare un affare individuale
e sparisce la comunità.
Mentre il desiderio di Gesù è quello di unire le persone vicendevolmente percorrendo una strada ricca di vulnerabilità ma in grado di abbattere i giganteschi muri che dividono le persone.